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Ten. Col. Paolo Caccia Dominioni
Paolo Caccia Dominioni (1896-1992) si
arruola volontario nella Prima guerra mondiale sul fronte del
Carso. Socio di uno studio di ingegneria del Cairo, a cui il
Dipartimento egiziano per l’Irrigazione aveva commissionato una
serie di disegni di alcune dighe dell’Alto Nilo, Caccia
Dominioni entra a far parte dei servizi di spionaggio
dell’Italia, che in quel periodo si prepara ad attaccare
l’Etiopia, e mentre segue i lavori idraulici porta a termine
anche la sua attività informativa. Rientrato ad Asmara, con il
grado di Capitano, gli viene affidato l’incarico di costituire
una pattuglia di esploratori, composta di “ascari” che parlino
arabo, tigrino ed amarico, destinata a muovere in testa alle
colonne in avanzata, per riconoscere il terreno, e ottenere
dagli abitanti informazioni sugli itinerari da seguire per
raggiungere Gondar e il Lago Tana. Vennero così aperti ben 275
km di pista e di strada.
Ma
l’esperienza in Africa non era terminata per lui, che oltre
all’inglese, al francese e al tedesco conosceva anche l’arabo ed
aveva avuto modo di apprezzare l’ambiente africano fatto di
assoluta fedeltà all’onore militare, di alto senso del dovere e
di grande spirito di sacrificio e coraggio.
La Seconda Guerra
Mondiale lo trova ad Ankara dove dirige i lavori per la
costruzione della nostra Ambasciata in Turchia, da lui
progettata. Viene di nuovo arruolato e, anche se conosce molto
bene i nostri limiti strategici e la difficoltà di vittoria,
continua ad essere utile al suo Paese entrando a far parte del
Genio Guastatori Alpini. Alla fine del 1940 è in Libia, nella
battaglia della Marmarica e nella offensiva italo tedesca di
Tobruk.
Il Maggiore Caccia Dominioni prende
parte alla battaglia di El Alamein con il suo 31mo Guastatori ed
infine combatte ad Asiago dove lo coglie l’armistizio.
Sollecitato da più parti a rientrare in servizio nell’Esercito
del Nord, decide di entrare nella Resistenza.
Alla fine della guerra accetta di
tornare al Cairo per riprendere il lavoro nello studio di
ingegneria e lì, nel 1949 il Console d’Italia, Alfredo Nuccio,
gli affida la ricerca e la sistemazione dei Caduti Italiani,
ancora dispersi nelle sabbie del territorio che va dalla Libia
ad El Alamein: oltre 220Km!
Caccia Dominioni e il suo commilitone
Chiodini, facendo base alla famosa Q33 (la “Quota 33”,
conquistata dai Marò del San Marco alla fine della corsa da
Tobruk ad El Alamein), dal 1948 al 1954 riescono a raccogliere,
censire e inumare i caduti rinvenuti nella vasta zona loro
affidata in un unico cimitero vicino a Q33 “per mettere in
evidenza il sacrificio italiano tanto ignorato da tutti”: sono
490 italiani, 465 tedeschi, 208 alleati, 63 ignoti di nazione
ignota per un totale di 1.226. Inoltre raccolgono provenienti da
altri minori cimiteri della zona: 893 italiani, 975 tedeschi,
205 libici per un totale generale di 3.299 salme!
Ben presto, però, Caccia Dominioni si
rende conto che, il Q33, troppo vulnerabile al trascorrere del
tempo a causa delle imponenti infiltrazioni di acqua, avrebbe
dovuto essere sostituito con una nuova e più grande opera
cimiteriale che lui stesso progetta ed esegue. Mentre
procedevano i lavori ad El Alamein, Caccia Dominioni, promosso
Tenente Colonnello, viene mandato a Murchisono (Australia) per
realizzare il Sacrario che oggi custodisce le salme dei soldati
deceduti laggiù in prigionia.
Il sacrario di El Alamein viene
completato nel 1958 e vi saranno traslate 5.364 salme di
Italiani riesumate dal cimitero di Q33, che ritorna ad essere
un’anonima parte del deserto; le ricerche di altri dispersi
continueranno fino al 1962. Secondo statistiche ufficiali sembra
che in terra egiziana i caduti siano stati 4.825, 11 dei quali
successivamente rimpatriati e 4.814 tumulati nel sacrario di El
Alamein. Di esse 2.465 hanno un nome, 2.349 rimarranno per
sempre ignote. Le spoglie di 1.095 soldati non sono state
ritrovate e rimarranno “disperse” in eterno.
Congedato dall’esercito, Caccia
Dominioni riprende il suo vecchio mestiere di ingegnere
progettista e in questa veste gli viene commissionata l’ala del
paracadutista, nella piazza dei Caduti a Viterbo e in un caserma
a Livorno; la Cappella della Folgore a Castro Marina; il
monumento all’artigliere da montagna ad Udine, quello di Amedeo
d’Aosta e quello degli “infoibati” a Gorizia; la cappella degli
alpini del battaglione “Morbegno” e, infine, il Sacrario di
Hammangi a Tripoli e quello dei Caduti d’Oltremare di Bari, che
Caccia Dominioni progetta rifacendosi allo schema di Hammangi
(v. scheda).
Nel 1983 il commissariato Generale
Onoranze Caduti in Guerra gli commissionò una meridiana da
collocare su Q33 e gli propose di metterla in sito
personalmente. Cosa che fece con grande orgoglio alla veneranda
età di 87 anni.
Ogni anno, nell’anniversario della
battaglia di Alamein, alla fine di ottobre, viene tenuta una
sontuosa cerimonia internazionale, la cui organizza- zione
compete a turno all’Italia, alla Germania o alla Gran Bretagna,
che dà vita ad un grande momento di incontro e di commozione. I
veterani, anche se sempre meno numerosi, vanno a portare un
fiore ed un saluto ai commilitoni caduti e là sepolti. Colpisce
vedere uomini di oltre 80 anni e di nazionalità nemiche
all’epoca della guerra che si ritrovano, fraternizzano, si
abbracciano e indossano con fierezza i loro copricapi e le
decorazioni di allora; hanno ancora un atteggiamento fiero,
deciso e trasmettono fede, entusiasmo e amor di Patria.
Questi
eventi, i sacrifici e sentimenti di questi uomini fieri,
dovrebbero essere fatti conoscere alle generazioni più giovani,
per ricordare coloro che sono stati meno fortunati e a monito di
tutte le guerre future.
Charles
de Foucauld
Charles de Foucauld nasce a
Strasburgo nel 1858. Rimasto orfano viene adottato dal nonno
materno del quale seguirà la carriera militare.
Tenente dell'esercito francese di
stanza in Algeria, nel 1885, terminata la campagna militare si
dimette dall’esercito e rimane in Africa perché ne è attratto e
perché gli permette di dedicarsi alle ricerche etnografiche del
Sahara. È proprio al deserto d’Algeria, allo studio delle
tradizioni e costumi tuareg (ne imparerà la lingua), che dedica
una parte della sua vita. Però de Foucauld è anche un uomo alla
ricerca di Dio.
"Per dodici anni, ho vissuto senza
alcuna fede: nulla mi pareva sufficientemente provato.
L'identica fede con cui venivano seguite religioni tanto diverse
mi appariva come la condanna di ogni fede.. Per dodici anni
rimasi senza nulla negare e nulla credere, disperando ormai
della verità, e non credendo più nemmeno in Dio, sembrandomi
ogni prova oltremodo poco evidente".
Nel 1901 è ordinato sacerdote e il
28 ottobre dello stesso anno fissa la sua residenza a
Bénis-Abbès (Algeria), dove costruisce un eremo per fondare una
fraternita dove le sue meditazioni e i suoi ritiri diventeranno
silenzi e scritti per dar modo alle popolazioni del Sahara di
conoscere direttamente le verità cristiane. Sensibilizza le
Autorità sul dramma della schiavitù e riesce ad affrancare
parecchi schiavi
Nel 1905 si trasferisce a
Tamanrasset e lì costruisce un piccolo romitorio; farà
altrettanto nel 1910 cin la costruzione di un eremo
nell'Aschrem, sull'Hoggar, in difesa dei tuareg. Fu proprio nel
1907 che Charles de Foucauld inizia un grandissimo lavoro
scientifico sui canti, poesie e proverbi degli “uomini blu”.
“continuare nel Sahara la vita
nascosta di Gesù a Nazareth, non per predicare, ma per servire
nella solitudine la povertà e l’umile lavoro di Gesù”
Esausto, Charles, si ammala e
saranno proprio i tuareg che lo salveranno dividendo con loro il
poco latte di capra in un periodo di siccità. Solo allora,
capisce che l’amicizia e l’amore tra fratelli passa attraverso
lo scambio e la reciprocità.
“Il mio apostolato deve essere
l’apostolato della bontà. Vedendomi la gente deve dire: poiché
quest’uomo è buono…la sua religione deve essere buona”
Nel 1914 scoppia la guerra in
Francia e anche nel deserto la situazione non era tanto
tranquilla per la presenza di razziatori marocchini e minacce
dei Senussi libici che scorazzavano liberamente per l’assenza
dei soldati francesi richiamati al fronte europeo.
La vita di padre de Foucauld si
conclude tragicamente il 1° dicembre 1916 quando un gruppo di
tuareg, comandati da alcuni Senussi lo catturano e lo legano.
Forse, si sarebbe potuto salvare se, nel tentativo di avvertire
due ignari meharisti francesi, non si fosse messo a gridare del
pericolo che stavano correndo.
Per se aveva voluto “povertà,
abiezione, umiliazione, abbandono, persecuzione e sofferenza”
che lo avevano convinto di quanto povera fosse la vita dell’uomo
e quanto era stato conquistato dalla nuda bellezza del deserto
che lo aveva aiutato ad avvicinarsi a Dio.
Isabelle Eberardt
L’amazzone del Sahara
Isabelle Eberhardt nacque a
Ginevra, il 17 febbraio 1877. Sua madre era una aristocratica
tedesca di origine russa, Natalia Nicolaevna Eberhardt e
suo
padre non era il marito di sua madre – il generale Moerder – ma
Aleksandr Nicolaievitch Trofimoskij, un sacerdote ortodosso
russo, amante della madre che però non riconobbe Isabelle come
sua figlia.
Anche se Isabelle era una ribelle,
il fatto di essere figlia illegittima ha influito moltissimo sul
suo bisogno di assumere identità diverse, di nascondersi dietro
pseudonimi anche maschili, sulla sua inclinazione a raccontare
storie inventate sulle sue origini. Questo dato è importante
nella vita di Isabelle e per comprenderlo a pieno è necessario
risalire all’aprile del 1871 quando la signora Natalia
Nicolaevna Eberhardt (coniugata con il senatore luogotenente
dello Zar Pavel de Moerder di ben 41 anni più anziano di lei)
lascia San Pietroburgo per motivi di salute. Meta è la Svizzera,
all’epoca considerata un toccasana per chiunque fosse debilitato
o cagionevole. E’ accompagnata dal marito, da tre dei suoi
figli: Nicolas, Natalia e Vladimir, dal figlio di primo letto
del marito, Costantin, e dal precettore Aleksandr Trofimoskij.
La signora de Moerder - a poco più
di trenta anni - ha già cinque figli ed ha avuto numerosi
aborti. Le gravidanze l’hanno spossata; oltretutto, durante il
viaggio, si rende conto di essere nuovamente incinta.
Nell’aprile del 1871, la famiglia
de Moerder raggiunge la Svizzera, ma nell’estate dello stesso
anno il senatore rientra da solo a San Pietroburgo mentre la
moglie si trattiene ancora e, l’11 dicembre 1871, mette al mondo
Augustin, quello che sarà il fratello prediletto di Isabelle, il
suo Tino amatissimo.
La salute di Natalia Nicolaevna è
sempre cagionevole e i medici le consigliano di prolungare
ancora per un anno il soggiorno e quando il generale de Moerder
muore, a San Pietroburgo, nel 1873, Natalia Nicolaevna è ancora
in Svizzera..
Aleksandr Trofimoskij - il futuro
padre di Isabelle - è un personaggio singolare; era colto e di
bell'aspetto. Sposato con tre figli e ottimo precettore.
Fervente ammiratore di Tolstoj, e molto amico e simpatizzante
delle idee anarchiche di Bakunin e di Protopkin. La sua casa era
frequentata da anarchici, nichilisti, cospiratori e
rivoluzionari di diverse nazionalità e proprio per questo, la
polizia elvetica sorvegliava costantemente i membri della sua
famiglia.
Nel 1879, quando Isabelle non ha
ancora compiuto due anni, Trofimoskij acquista una casa e un
vasto terreno nei dintorni di Ginevra. La gente del posto la
chiama la villa Tropicale perché il precedente proprietario,
appassionato di botanica, coltivava piante grasse nelle serre
vicine alla casa.
Ed è in questa casa che Isabelle
trascorre l‘infanzia. Trofimoskij insegna storia, lingue antiche
e moderne, letteratura russa e straniera ai ragazzi maggiori; ma
la tranquillità di questi primi anni viene spezzata da una serie
di separazioni e fughe da parte dei figli. Nel 1883 Nicolas
ritorna a San Pietroburgo, nel 1887, Natalia fugge con il
fidanzato Alexandre Perez-Moreyra e poco dopo lo sposa. Anche
Augustin, nel 1888, scompare per arruolarsi nella legione
straniera.
A causa di questi avvenimenti,
Isabelle durante la sua adolescenza è molto sorvegliata. Viene
sempre accompagnata nei suoi spostamenti da una governante o
dalla madre, non può tenere una corrispondenza senza
l’autorizzazione di Trofimoskij. In un unico campo le è concessa
la massima libertà: può leggere qualsiasi libro le capiti sotto
gli occhi: romanzi, memorie, poemi, saggi. I suoi romanzi
preferiti sono quelli di Pierre Loti e di Lydia Pachkov.
La voglia di sapere di Isabelle è
insaziabile, spende somme considerevoli per acquistare libri di
ogni genere e annota minuziosamente ogni suo acquisto, compra
grammatiche d’italiano, d’inglese, di armeno, dizionari di
greco, di persiano, di turco, di tedesco.....Inizia a studiare
l’arabo e così si procura una decina di dizionari franco-arabi,
il manuale dell’arabista in due volumi, alcuni saggi sull’Islam
del XIX secolo, una grammatica cabila. Desidera diventare
scrittrice.
Nel 1895 il suo primo saggio di
ispirazione africana, "Visions du Maghreb", scritto sotto lo
pseudonimo di Nicolas Podolinsky, viene pubblicato dalla
“Nouvelle Revue moderne”.
Intanto, Augustin, il fratello
tanto amato, è di nuovo in Algeria, nella legione straniera e
Isabelle gli indirizza lettere dal tono accorato, si dispera, lo
prega di tornare; gli racconta la disperazione della madre, ma
non smette di coltivare il sogno di lasciare Ginevra e di
viaggiare nei paesi arabi. Si mette in contatto con Eugène
Letord, ufficiale francese in Algeria, che aveva messo un
annuncio sul giornale al quale lei era abbonata - con lui si
firmerà Nadia- e che le sarà amico fino alla fine; inizia a
corrispondere con Abu Naddara, un letterato egiziano, un
arabista, un tipo stravagante che viveva a Parigi e pubblicava
un giornale: Abu Naddara Zarga. Isabelle gli manda auliche
missive in arabo classico, chiede il parere del ’venerato
sceicco” sui suoi lavori di traduzione dal russo all’arabo, che
all’epoca non erano altro che puri esercizi di stile. Stavolta
si firma I. de Moerder. Gli invia anche una foto - una delle più
famose di lei - in abito maschile, vestita alla marinara, i
capelli tagliati cortissimi. Ha poi ancora un altro
corrispondente: un giovane tunisino di nobile famiglia, Ali
Abdul Wahhab, colto, educato all’europea, il cui padre era
governatore di Mahdia. Isabelle con lui si firma Nicolas
Podolinsky, e a volte Meryem. E’ evidente, nel suo bisogno di
camuffarsi dietro falsi nomi, la ricerca di una identità che
ancora non ha preso corpo, il desiderio di spezzare la monotonia
della vita quotidiana alla villa e il sogno di lasciare Ginevra.
Il fratello Augustin è ancora in
Algeria e proprio la ricerca del fratello sarà il pretesto della
sua prima partenza per l’Africa del nord. Nel maggio 1897,
infatti, Isabelle e la madre raggiungono Marsiglia e si
imbarcano per Bona, che lei chiamerà sempre con il suo nome
arabo di Annaba. A Bona la passione di Isabelle per il modo di
vivere 'orientale' e per la religione musulmana si trasforma in
un’ammirazione ragionata. Fu, infatti, durante questo primo
soggiorno che decise di convertirsi. E la fede, anche nei
periodi più cupi della sua vita non conobbe mai incertezze.
Sempre a Bona si compie quella che per lei sarà una tragedia
fonte di un dolore costante che l'accompagnerà per sempre: la
morte della cinquantanovenne madre, affetta da pleurite. Ella ne
è sconvolta, si sente finita. Il padre, Trofimoskij, la
raggiunge ed insieme decidono di seppellire la signora de
Moerder, anche lei convertita all'Islam, sotto il nome di Fatma
Manoubia, nel cimitero musulmano di Bona. Quindi lasciano
l’Algeria e ritornano in Svizzera.
Isabelle, nonostante tutto, ha
voglia di vivere, di viaggiare, di conoscere, ma nel 1898
l’attendono altre tragedie; l’altro fratello Vladimir, si
suicida; il padre, Trofimoskij, si ammala gravemente di un
tumore alla gola. Intanto Augustin è tornato a Ginevra e
Isabelle si rende conto che il fratello prediletto è in realtà
un inetto che non avrebbe mai concluso nulla nella vita.
Il 15 maggio 1899 Trofimoskij
muore.
Per Isabelle la morte del padre è
la chiusura del cerchio di tutto ciò che la lega alla villa
Neuve e si rende conto che nulla più la trattiene. E' impaziente
di disfarsi di quella casa triste, dove le morti si susseguono e
che è stata, per lei, una sorta di prigione.
Nel giugno 1899 si imbarca sul
Saint-Augustin diretta a Tunisi e qui subisce il fascino della
morte. Negli scritti "Heures de Tunis", così descrive quei
giorni: "....Ho sempre amato vagare nei cimiteri musulmani, non
hanno nulla di lugubre e di triste, pieni di fiori, di vigne e
d'arbusti...".
Inizia a vestirsi alla beduina,
indossa candidi burnus, si rasa completamente i capelli, si
spaccia per un giovane ragazzo: Mahmoud Saadi; la sua nuova
identità prende finalmente corpo.
I mesi successivi saranno
caratterizzati da spostamenti continui. Ed è questo un dato
costante in lei - a parte soste obbligate più o meno brevi - la
sua esistenza è fatta di spostamenti da un Paese all'altro, in
modo frenetico; solo la fede le darà un po' di pace, come
dimostrano le considerazioni che annota nel suo diario. Nasce in
lei anche una profonda visione fatalista dell'esistenza umana,
che forse può essere la causa della sua inerzia nei confronti
della successiva e precoce decadenza fisica e che le farà
sostenere che tutto è scritto, tutto è maktub.
Nel luglio del 1899 lascia la
Tunisia diretta in Algeria. Arriva a Beja, poi a El-Khroub, e
infine a Biskra. Probabilmente in questo periodo inizia a
fumare kif, una droga, un misto di erbe ed hashish all'epoca non
vietata. Continua a farsi passare per Mahmoud Saadi, giovane
tunisino in pellegrinaggio da una zawiya all'altra.
Ad agosto decide di spingersi
verso Sud e raggiunge l'oasi di El-Oued.
Nel suo libro "Au pays de sables",
rievocherà quel momento: ".... il mio arrivo a El-Oued fu per me
una rivelazione completa, definitiva, di quel Paese splendido:
il Souf, della sua particolare bellezza ed anche della sua
infinita tristezza".
A settembre torna a Tunisi, quindi
va a Sousse e Monastir. Scrive degli appunti di viaggio che
saranno pubblicati con il titolo di "Notes sur le Sahel
tunisien".
In ottobre lascia Tunisi e torna a
Marsiglia. Alla fine di novembre parte per Parigi, con
l'intenzione di trattenersi qualche mese e di incontrare l'amico
Ali Abdul Wahhab. Invece, il 16 dicembre, annota sul suo diario:
"Rottura definitiva con Ali". Finisce così, per ragioni mai ben
chiarite, un'intensa amicizia e una fittissima corrispondenza
epistolare durata tre anni.
Torna dunque a Marsiglia, quindi
in treno va a Livorno dove si imbarca per la Sardegna.
Il 1° gennaio 1900 arriva a
Cagliari per incontrarsi con l'amato fratello Augustin che nel
frattempo ha sposato Hélène Long, una ragazza incolta che
Isabelle chiamerà sempre l'ouvrière, né perdonerà mai al
fratello questo matrimonio. Nei suoi "Mes Journaliers" alla data
del 1° gennaio 1900 scrive: "Sono solo, di fronte all'immensità
grigia del mare mormorante, solo come lo sono sempre stato...".
Usa il maschile in una ambiguità che in tutta la sua vita ha
sempre usato.
Prova un'intensa nostalgia per
l'Africa. Annota ancora: "... Ritornare in Africa, riprendere
quella vita, dormire nella frescura e nel silenzio profondo,
avere per tetto il cielo infinito e per letto la terra...".
Nell'agosto del 1900 è di nuovo a
El-Oued.
Qui Isabelle conosce Suliman
Ehnni, l'uomo che dopo Ali Abdul Wahhab e il fratello Augustin
ha più amato - Slimène, come lei lo chiama alla francese - un
giovane ufficiale arabo del reggimento Spahi di El-Oued. Gli
Spahi costituivano un reggimento di cavalleria, di origine
turca, che i francesi avevano acquisito al loro servizio e
francesizzato.
Isabelle non conosce mezze misure,
si innamora di lui follemente, in modo totale ed eccessivo.
Ehnni sarà per lei un compagno fedele, un punto di riferimento
costante nonostante le future, lunghe separazioni ed i suoi
tormentati vagabondaggi, ma la salute di Isabelle inizia ad
incrinarsi, si sente sempre più debole, si nutre sempre meno,
fuma kif. La sua smania di vivere inizia ad avere connotazioni
autodistruttive. Nel frattempo Slimène viene trasferito a Batna
e lei è intenzionata a seguirlo; parte, dunque, a cavallo. Il 29
gennaio 1901, nelle prime ore del pomeriggio, si accampa a
Béhima, ad una ventina di chilometri a nord-est di El-Oued.
Isabelle è seduta, aiuta un’analfabeta a scrivere una lettera,
il turbante le impedisce di notare l'uomo alle sue spalle.
Questi la assale e le sferra un violento colpo al capo e due
pugnalate alle braccia. Lei si accascia al suolo mentre i suoi
amici disarmano l'attentatore. Il generale Dechizelle,
comandante del settore militare francese di Costantina,
attribuisce il crimine ad un atto di fanatismo religioso ed al
fatto che Isabelle è affiliata alla Qadriyya ed in intimità con
i capi della confraternita. Quella donna bizzarra comincia ad
essere un personaggio scomodo, troppo particolare, troppo
eccentrica. Dunque si rende necessario richiedere al console
russo l'autorizzazione affinché sia espulsa dall'Algeria e
questi autorizza di condurre alla frontiera "questa signorina
russa che s'abbiglia in costume arabo....".
Ai primi di maggio del 1901
Isabelle riceve l'avviso di espulsione. Fa una breve sosta a
Batna per incontrare Slimène quindi si imbarca per Marsiglia. I
due sono separati ancora una volta.
La vita a Marsiglia le è
intollerabile: non ha denaro, il suo amore è lontano, così come
l’Algeria ma, verso la fine del mese, riceve una notizia
insperata che le offre la possibilità di chiedere
l'autorizzazione di rientrare e di far valere le sue ragioni.
Viene, infatti, convocata dal tribunale di Costantina perché
Abdallah Muhammad, il suo attentatore, sarà processato per
tentato omicidio. A giugno rientra per testimoniare al processo
che desta scalpore per l’abbigliamento arabo di Isabelle: una
ragazza di buona famiglia europea, che parla innumerevoli
lingue, vestita come un'indigena e che afferma di essere
musulmana....
Abdallah, l'attentatore, dichiara
che 'Allah gli ha ordinato di uccidere M.lle Eberhardt che,
contrariamente alle nostre abitudini, si abbiglia in modo
maschile e porta scompiglio nelle nostre regioni.
Isabelle si difende. Le domandano
dei suoi abiti maschili e lei risponde: "Monto a cavallo e li
trovo più comodi". Le chiedono di cospirazioni e lei ribatte:
"Non ho mai partecipato ad alcuna azione antifrancese..", come
riporta ancora la Dépêche algérienne.
Il processo le farà guadagnare il
favore del pubblico.
L'attentatore viene condannato a
dieci anni di carcere, ed Isabelle, espulsa dall’Algeria,
raggiunge Marsiglia con Slimène.
Nell'ottobre del 1901, a
Marsiglia, viene celebrato il loro matrimonio civile e ivi si
stabiliscono, Slimène nel frattempo ha lasciato l'esercito.
Nel febbraio del 1902, Isabelle e
il marito possono tornare finalmente ad Algeri.
E questa sarà per Isabelle la
rottura definitiva con tutto ciò che la lega all'Europa e a quel
che resta della sua famiglia. Rompe anche con l'adorato fratello
Augustin. Annota nel suo diario: "....il fratello tanto amato è
per me come morto...".
Ad Algeri Isabelle diviene amica
dello scrittore Victor Barrucand, corrispondente per La Revue
Blanche, che cerca di aiutare i due giovani e trova un impiego
ad Ehnni come traduttore nella comunità mista franco-araba di
Ténès, ad un centinaio di chilometri ad est di Algeri.
Là, Isabelle incontrerà un altro
personaggio fondamentale nella sua vita: lo scrittore Robert
Randau (anagramma del vero cognome, Arnaud) che era nato in
Algeria ed era figlio di un colono francese; aveva scritto libri
sull'Africa e sulla presenza francese in questa terra. A Ténès
era una personalità statale presso la comunità mista, un uomo
colto e generoso. Egli ci ha lasciato un preciso ritratto di
Isabelle in quegli anni: elegante, vestita alla cavallerizza,
con indosso un immacolato burnous, gli stivali alti e rossi
degli Spahi, gli occhi neri, la faccia livida, gli zigomi alti e
una voce stridula e nasale che colpiva chiunque la incontrasse.
A Ténès, Isabelle inizia a
scrivere articoli per l'Akhbar, un periodico in lingua araba e
filo-arabo, ma la sua salute è sempre più precaria, non fa
alcuno sforzo per curarsi. I suoi denti - una volta splendidi -
cominciano a marcire, è l'inizio di una decadenza fisica precoce
e inarrestabile: ed ha solo venticinque anni!
Anche a Ténès Isabelle non sarà
risparmiata dalle calunnie. Proprio a causa della sua
collaborazione con una rivista filo-araba, viene accusata di
influenzare i musulmani della regione, di comprare i loro voti.
Il marito è accusato di estorcere denaro agli "indigeni" per
sovvenzionare le casse dell'Akhbar.
Lei cerca di discolparsi
pubblicamente sulla stampa, proclama la sua onestà ma i due
vengono comunque sommersi da una campagna diffamatoria. Ancora
una volta l'amico Barrucand l’aiuta proponendole ospitalità ad
Algeri in cambio della collaborazione all'Akhbar; sa che non
troverà mai più una persona come Isabelle in grado di combinare
le ambizioni coloniali della Francia e le realtà locali.
Isabelle accetta l'offerta che le
permetterà di riprendere il suo vagabondaggio nel deserto:
l'unica cosa che l'attragga veramente. Nell'anno 1903 approda
alla guarnigione militare di Ayn Sefra dove conosce il generale
Hubert Lyautey, inviato alla frontiera algerino-marocchina per
sedare e sottomettere le tribù ribelli, e che sarà suo intimo
amico fino alla fine.
Nella guarnigione conosce soldati
di ogni nazionalità arruolati nella legione stranera, fuma kif,
mangia e dorme pochissimo.
Isabelle diventa un’agente per
conto di Lyautey: la sua conoscenza degli ambienti musulmani è
nota, così come i suoi contatti con le tribù locali e la
possibilità di frequentare le zawiya, dove si supponeva fossero
i bastioni della ribellione. Inoltre la sua qualifica di
giornalista giustifica la sua presenza nelle zone calde e
pericolose.
I suoi resoconti all'Akhbar
costituiscono una riprova di questo suo ruolo; ella afferma che
lo sterminio delle tribù dissidenti è inutile, che è sufficiente
isolare e mettere sotto sorveglianza i ribelli. I suoi articoli
attirano l'attenzione e compaiono anche sulla Dépêche
algérienne.
Nel dicembre del 1903 torna ad
Algeri per trascorrere il Ramadan con Slimène: lui è
tubercolotico.
Isabelle vive l'ultimo anno della
sua vita, il 1904, in modo febbrile, in continuo movimento.
Ancora una volta viaggia verso Sud
al confine col Marocco, visita la zawiya di Kanadsaa, 20
chilometri a sud-est di Colombe-Béchar in territorio marocchino,
quindi torna ad Ayn Sefra che lei considera il suo punto di
riferimento e dove ha affittato una casa. Ma gli attacchi di
febbri malariche si fanno talmente violenti che è costretta a
farsi ricoverare nell'ospedale militare della guarnigione: è il
2 ottobre 1904.
Il 21 ottobre Isabelle è
impaziente di lasciare l'ospedale, quel giorno Slimène l'ha
raggiunta dopo una lunga separazione e lei lo vuole incontrare,
contro il parere dei medici che vorrebbero trattenerla. Le
casupole di fango costruite a ridosso dell’uadi Sefra, vengono
improvvisa- mente sommerse dal fiume in piena che trascina con
sé case, bestiame, alberi, persone; la donna - affacciata ad un
precario balconcino – sorride, osserva la spaventosa marea che
spazza via tutto. Rimane immobile, non fugge, non tenta in alcun
modo di salvarsi. Un’onda la travolge. Il suo corpo sarà
ritrovato solo alcuni giorni più tardi, sotto le rovine della
sua casupola e l'amico Lyautey lo farà inumare nel cimitero
musulmano.
Questa androgina del deserto,
questa amazzone del Sahara, la nomade dal cuore d'oro,
corrispondeva perfettamente all'idea dell' 'Oriente' che
coltivavano gli Europei all'inizio del secolo. Non ci fu nessun
principe nella vita di Isabelle, nessun alto funzionario, nessun
appoggio, tutto quello che realizzò fu intrapreso senza nessun
aiuto e nella solitudine e rivendicò soltanto la libertà di
convertirsi all’Islam e di amare un popolo e un paese -
l’Algeria - che non era il suo, e di viverci coraggiosamente da
sradicata, pur cercando un’integrazione a prima vista proibita.
In un’epoca in cui la vita delle
donne era relegata alla famiglia e alla casa, Isabelle fu una
donna al di fuori di questi schemi. Fece dell’Islam la sua
religione e del deserto la sua casa: lo percorse in lungo e in
largo, a cavallo, con una sacca piena di libri e i soli abiti
che aveva indosso. Visse in povertà estrema, da nomade con i
nomadi, condivise con loro fatiche e malattie.
Sia da viva che da morta divenne
un mito in Francia, e d’altro canto non si poteva non rimanere
affascinati dalla personalità di questa donna non bella, dalla
fronte alta e bombata, dagli occhi neri, dalla voce sgradevole
che riposa da quasi cent’anni nel cimitero musulmano di Ayn
Sefra.
R.S
“Noi siamo le figlie della stella
del mattino; camminiamo sui giacigli molli; abbiamo perle al
collo, muschio alla divisione dei capelli; quelli che avanzano
alla spugna, noi li abbracciamo, quelli che si ritraggono noi li
abbandoniamo”. Così cantava Hind, coi capelli al vento, seguendo
i Coreisciti alla battaglia di Ohod e immergendo le labbra nel
fegato palpitante di Hanza. Hind è l’Eva barbara del Nedged
dell’Hejaz del Yemen, nata la dove il profeta dell’Islam gridò:
il paradiso è all’ombra delle spade. Il suo sangue sui
innumerevoli innesti lungo tutte le sponde del Mediterraneo, da
Damasco a Cordova, a seconda che la Spagna o la Persia, l’Africa
dei berberi o dei Mori s’infiltravano nella razza araba
conquistatrice. Ne risultò il tipo saraceno, oscillante fra il
semitico e il camitico, fra il pastore errante dell’Arabia
deserta e il fellah egizio e berbero. Cotesto tipo, che in
Algeria in Tunisia ed Egitto va sempre più modificandosi al
contatto dei nuovi conquistatori bianchi, qui è ancora intatto e
le donne israelite e musulmane sono ancora negli usi e nelle
vesti nel sangue e nella lingua, profondamente saracene.
Ritengono tutte dall’Arabia la
lingua, più dura che nelle altre parti dell’Africa e più rigido
ancora il costume tradizionale e immutabile, sia nelle
discendenti di Hind sia in quelle di Fathma e di Aisha.
Ebree e musulmane, tutte parlano
lo stesso arabo, vestono costumi consimili, abitano case dagli
stessi arabeschi, dalle stesse logge, dagli stessi cortili e si
tingono tutte degli stessi succhi di henna. Ma pure le due
diversi leggi, la Bibbia e il Corano, atteggiarono il loro
spirito a una profonda dissomiglianza. La moschea e la sinagoga
non si fusero mai, benchè Mosè e Maometto adorassero lo stesso
Iddio, unico; e quando la donna dell’harem s’incurva adorando,
allorché dai minareti giunge l’invito alla preghiera, la donna
ebrea passa indifferente, benché il nome Allah anche per lei
suoni nome di Dio.
E dalle due diverse leggi, nasce
una divisione profonda nella vita delle due donne.
La casa, che nell’architettura, e
nelle sue divisioni, sembra uguale tanto presso le musulmane che
presso le ebree, ha dalle porte alle finestre, una diversità
sostanziale. Mentre nella Hara le finestre sono munite di sole
inferriate e le porte lasciano scorgere i vivaci colori del
cortile ove le donne preparano le vivande, pestando, lavando le
spezie e gli ortaggi; nel quartiere arabo, invece, le finestre
sono nascoste da fitte grate di legno e le porte si aprono su
piccoli anditi a sghembo, che nascondono l’interno agli occhi
più curiosi. La casa israelita è sonante di voci e di risa;
quella musulmana si chiude in un silenzio misterioso. Sulle
porte della Hara, nei costumi colorati e scintillanti di
metalli, le ebree si appoggiano indolentemente, sorridendo e
rispondendo a chi le interroga, con voluttuoso abbandono, mentre
tutti i battenti sono inesorabilmente chiusi nel quartieri
arabo.
Ospitali, liete e freschi di una
bellezza di rose di macchia, che traluce dalle formle
semiaperte e dalle braccia e dalle gambe seminude, le nipoti di
Hind, di Sara, di Rebecca, fanno pensare a rapimenti saraceni su
feluche dalle gonfie vele, tra strida e luccicare di denti, e
schiuma d’onde percosse dal remo.
Adesso, tutta la loro vita
trascorre nel cortile quadrato a incrostazioni di maiolica e
nelle poche stanze n mezzo alle droghe, agli ortaggi, alle
carni, nella laboriosa preparazione dei pasti. Gli uomini
lavorano la settimana, per godere i pasti e soprattutto quello
del sabato, preparato di lunga mano dalle loro donne. Sono stato
a un pranzo nella Hara, in casa di un Rabbi, in una stanza
aperta sulla terrazza, inondata dal sole, su cui le donne in
gruppi di fiamma e d’oro si aggruppavano, snodando le belle
membra calde di vita. Le donne non possono partecipare al pranzo
degli uomini; mangiano prima in un’altra stanza. Mentre noi
sedevamo alla mensa interminabile, esse vegliavano ai cibi,
ansiose dell’approvazione dei commensali. Ognuno di quei cibi
che passavano sotto il nostri occhi, era una pagina della loro
vita. Passavano più davanti agli occhi che sotto il palato, il
nokidis, il mifrum, il kukila, il makud, il kahen, il karkos, il
kuskus, miscele laboriose in cui le carni, le farine, le uova,
avevano subito giornate intere di immersione, di lavaggi, di
condimenti e il vecchio Rabbi, con la fronte cinta da un ampio
turbante, sorrideva a capo della tavola, a quella processione di
vivande, drogate di tutte le spezie e di tutti i sapori, mentre
dalle finestre e dalle porte fiorivano, come cespi di rose, le
fanciulle e le donne
Quando giunge l’atteso giorno
delle nozze, l’uso saraceno antichissimo vuole che tutte le
donne e le fanciulle della Hara partecipino alla festa. Vi è lo
Sciabbat el Benat (sabato delle fanciulle) che raccoglie nella
casa della sposa tutte le fanciulle israelite, mentre una
piccola orchestra suona la darbuka e i dandir, tamburo e
cembali, cantando canzoni arabe. Tre notti della settimana, che
antecede gli sponsali, sono rallegrate da questa musica e da un
corteo. Nel buio delle strade, si vede spuntare un uomo che reca
un braciere fiammante seguito da altri portatori di lanterne; si
ode la musica dei cembali e una torma di donne passa cantando,
gridando, intorno alla sposa; mentre, dalle finestre, altre
donne gettano su di lei acqua commista di rosa e gelsomino. Vi è
inoltre lo Sciabbat el Hennè che io vidi una sera in una casa
della Hara. Il nostro ingresso portò lo scompiglio. Lembi di
seta azzurra e rosea, trecce brune e formle d’ogni colore, si
videro in fuga per le varie porte. Passata la prima sorpresa, si
affacciarono qual e la occhi stellanti, pieni di meraviglia tra
gli arabeschi delle pareti di maiolica. In una i quelle stanze
v’era la sposa. Ahimè, la cerimonia che si compiva, aveva più
del funerale che degli sponsali. La sposa giaceva in terra coi
piedi e le mani ravvolte in bende di lana, aveva la faccia
coperta da un velo nero e le compagne attorno a lei, negli abiti
sfarzosi, assistevano alle applicazioni di henna.
Tutte le sere, per l’intera
settimana, i poveri piedi e le povere mani della giovine donna,
vengono arrossati con i sughi dell’henna finché non siano
completamente neri. Questo è il rito; e finché le piante della
sposa non sono nere, essa non può avvicinarsi al talamo nuziale.
Con una pazienza religiosa, una docilità incantevole, la bella
ebrea attendeva la nostra partenza, per ricominciare le
applicazioni alle piante. Quando arriva il giorno delle nozze,
finite le preghiere, nei pittoreschi cortili, allorché il Rabbi
deve benedire gli sponsali, ecco, si vede scendere dalla
terrazza, sorretta da tre, da quattro voluminose anziane, la
sposa, mettendo un piede innanzi l’altro, come se camminasse
sulle spine. Così vuole il rito.
Quale sacrificio per le belle
ebree, in quel momento, che tutti gli occhi sono dissi su di
loro! Esse, che camminano sciolte e leggere, con l’holi di seta
bianca sulle labbra, sulla fronte e lungo il corpo agile; che si
incurvano con tanta prestezza a gettare l’acqua sui pavimenti, a
strofinare le pareti scintillanti, cinguettando un arabo, dolce
come il liquore delle palme! Sono gentili di sorrisi, queste
arabe ribelli all’islam, fedeli agli antichi Profeti! E tra una
parola araba e n luccicare dei denti di perla, incastonano
quelle parole italiane che sono loro rimaste dalle lezioni di
scuola. Tutte hanno frequentato le scuole italiane; ed è per uno
di noi una sorpresa deliziosa, sentirsi salutare e rispondere
con qualche parola limpida, nata sulle rive dell’Arno. E sanno
anche comprendere la nostra lingua! Nel minuscolo teatro di
Tripoli, ove recita una minuscola compagnia italiana qua e là
nei palchetti, si vedono sempre, fra i monotoni vestiti europei,
come raggi di luce, i vestiti delle israelite. Vi era un palco
una sera, di fronte a me, che pareva una scena dalle Mille e una
notte; tre piccole ebree; una gara di giovinezza, di splendore,
di riso. Vederle ridere era una felicità.
Le loro anime semibarbare
lanciavano dagli occhi e dalle labbra degli zampilli; mentre nel
silenzio della sala, si udivano i debalesc, i dubluni, gli
hidaid, collane e monili, urtarsi sul petto e sulle braccia.
L’una di esse, sui capelli neri,
portava una maharama di seta color fragola, intorno al collo una
collana di medaglie d’oro e una tempesta di punti d’oro sui velo
della cardia. Un holi di seta bianca copriva la piccola persona.
La seconda era bionda, neppure diciottenne, una Huri, dallo
sguardo incerto e dal sorriso timido che un leggero imbarazzo
rendeva anche più vaga. La terza, che occupava l’interno del
palco, pareva, nella penombra, una figlia di re Salomone, nata
col Cantico dei Cantici, quando il poeta regale era ebbro delle
bellezze terrene.
Si protendevano, si agitavano,
ridendo, inseguendo le parole della scena, dilatando gli occhi a
quelle più ardue; sciogliendosi tutte in una tempesta di luce,
quando avevano compreso.
Quale più beata visione può
offrire la terra? Ogni gesto, ogni atto, ogni flettersi delle
figure, ogni scatto di riso era fulmineo, come la loro natura
ordinava, immediata era la rispondenza fra il sentimento e
l’azione, ogni moto era sincero come la polpa dei datteri e il
latte delle capre. Veder ridere così, è come respirare a pieni
polmoni l’aria del mare con i piedi sulle rocce stillanti e la
fronte al vento.
Nella casa musulmana, le stanze
hanno uguale architettura. Ai due lati, si flettono due vòlte da
cui pendono cortinaggi che velano i letti. Il letto consiste in
un largo materasso, capace di due persone, che giace sopra un
vero edificio di legno incardinato alle pareti. Una piccola
ringhiera corono l’armadio-letto e alcuni scalini aiutano
l’ascensione. Se la casa è ricca, il legno è intarsiato, e
contiene cuscini trapunti e tappeti a profusione. Le musulmane
di Tripoli, siano indigene o levantine, si alzano presto e
appena levate prendono il the e una specie di basina
condita col burro e il miele che basta loro fino a ora tarda.
Nella mattina escono, poi per lo scambio delle visite; le
levantine velate di nero; le tripoline, chiuse nelle bianche
pieghe dell’holi, incrociato sul volto. All’ora della preghiera,
viene distesi uno speciale tappeto, su cui si prosternano,
pregando insieme
Sono liete e spensierate, ignare
del domani, gorgheggianti come usignoli e soggette a due solo
cose: il velo e il loro signore. Quando una di esse lo disgusta,
egli può con due solo parole: sia divorziata! Cacciarla di casa
per sempre; né può riprenderla, prima che essa abbia contratto
altre nozze e subito nuovo divorzio.
Con questa facile alternativa, una
donna può variare sette, dieci mariti. Perciò un divorzio è più
grazioso della loro commedia domestica; la quale del resto, può
tramutarsi rapidamente in tragedia, non appena un estraneo
ardisca penetrare la casa araba. La proprietà della casa e delle
donne giunge, presso gli arabi di Tripoli, al parossismo
religioso.
Se alcuno penetra il segreto del
volto di una di esse, commette un sacrilegio, che l’arabo
selvaggiamente punisce con la morte.
Trovare un uomo in casa o sotto
le proprie finestre, non ha che una logica conseguenza:
ammazzarlo. Di questa gelosia sensuale e mistica, la donna
musulmana prende quasi sempre vendetta fuori dalle mura
dell’harem. Può spesso accadere che essendo così velate, il
marito si imbatta per la strada, nella propria donna, senza
riconoscerla. Ma il peggio è che codesta gelosia religiosa non
si limita alle moglie ma si estende a tutte le donne, purché
appartengano alla loro razza e al loro culto.
Al Cairo, Algeri a Costantinopoli,
si vedranno le donne arabe, seguaci di Maria di Magdala.
commiste a quelle di ogni altro paese; qui a Tripoli, invece,
anche codeste subiscono una reclusione ferrea, persistendo
inattaccabile il fanatismo religioso. È una orribile gelosia di
razza, una specie di vigile custodia, di spionaggio, che ogni
arabo esercita su tutte le donne della sua origine. Anche il più
piccolo scoiattolo dalla camicia stracciata se vedrà una donna
araba a fianco di un uomo o se la scorgerà uscire da un’altra
casa, con qualche sospetto, chiamerà a raccolta e all’improvviso
una torna di uomini i precipiterà sulla donna e su chi
l’accompagna o la segue. Un’araba, nell’uscire da un convegno,
fu sorpresa da un pezzente che, obbedendo ad un sacro dovere, si
slanciò su di lei strappandole il vela dalla faccia per
riconoscerla ed accusarla. La donna, supplicandolo di tacere non
poté sfuggirgli che lasciando piovere nelle mani di lui, tutti i
suoi monili e le gioie che aveva addosso. Tripoli è sempre
rigurgitante di oziosi, pronti a simil genere di scandagli;
perciò è piena d’inciampi qualunque avventura. Accade qui,
parlando delle donne arabe, di vedere tutti i volti oscurarsi,
come di fronte a un mistero impenetrabile che ha la morte per
necessaria conseguenza. Quando io arrivai, chiesi ad alcuni
giovani di Tripoli: “avrete tutti delle amanti arabe, se sono,
come corre voce, di così grande bellezza?”
I giovani tripolini sorrisero,
percossi da stupore.
Nessuno di essi aveva un’amante
araba, non solo, ma nessuno ardiva, per timore degli Arabi, di
avvicinare quelle già note. Nella loro spensierata letizia,
quelle farfalle dorate si compiacciono poi segretamente di mille
avventure, con arabi, s’intende.
Mi narravano di un giovane che
ebbe finalmente dalla moglie di un ricco arabo, per nome
Khadigia, di meravigliosa bellezza, la grazia di un convegno
nell’harem: ma, temendo un inganno, egli si astenne
dall’andarvi, pensando di rinviare al giorno seguente il
ritrovo. Incontrata Khadigia, questa gli chiese il perché
dell’assenza ed egli rispose che era stato a Zanzur e che
sarebbe entrato all’istante. Entrarono e di li a poco la porta
fu percossa con violenza. Come fare? Kadigia sorrideva
placidamente: chiuse la camera, pose le sue scarpe davanti alla
porta e si fece incontro all’adirato signore che impugnava una
splendida rivoltella damaschinata.
-- Vi è qualcuno!! - Urlò l’arabo
furibondo.
- Non vi è nessuno, mio signore -
rispose sorridendo Kadigia.
- Là dentro vi è qualche infedele
- riprese il marito slanciandosi verso la porta
- nella mia camera vi è una donna,
l’amica mia Massuda e voi non potete entrare. Se io fossi presso
una mia cugina, vorreste voi che un uomo vedesse il mio volto?
Così voi non potete vedere l’amica mia –
Questo argomento fu convincente,
infatti nessun arabo può entrare dove sia chiusa una donna, che
abbia lasciate le sue scarpe alla porta.
Il marito depose la rivoltella
damaschinata e s’avviò per i suoi affari, mentre Kadija
rientrava placidamente con l’amico.
Passano, sormontando con
disinvoltura i promontori e le insenature delle vie di Tripoli e
provocano spesso solenti abbagli, così da seguire ansiosamente
tutta chiusa nei veli, qualche antichità rispettabile. Tuttavia,
le scarpine di vernice, invece dei lunghi sandali di pelle
gialla o rossa, e un lieve profumo di gelsomino, possono essere
indizi sicuri di giovinezza.
Ma chi le vede? Sono misteri che
passano, segreti che non sapremo mai.
Ogni mattina, io comincio a
percorrere l’alveare delle strade, che nessuno designa per nome,
perché i nomi sono graffiati in turco a qualche angolo e
consunti dalla pioggia e dal sole; “sperando di penetrare questi
segreti, scrutando ogni velo nero, ogni holi bianco e non
vedendo che volti in ombra o un occhio solo, fra i due lembi
incrociati. Percorrere e ripercorrere le stesse strade in questa
ricerca inutile, è un destino a ci non possiamo ribellarci. Chi
può rinunciare alla felicità, benché la sappia eternamente
lontana?
Esse hanno la bellezza del
mistero; sono simili alle conchiglie, che portano il ronzio del
mare. Che cos’è una conchiglia? Un piccolo guscio con l’anima
del mare.
Queste creature velate, sono
l’involucro di una cosa grande ed eterna più del mare; il sogno
umano.
Entravo una mattina nel quartiere
arabo, e mi fermai distrattamente avanti a un forno, uno di quei
bassi forni oscuri su cui i due negri accumulano il combustibile
di sterco, estraendone poi, con la pala, i pani dorati. Guardavo
i due negri, specie di trogloditi, dal corpo scheletrico coperto
appena da due stracci di stoffa consunta e pensavo a quelle vite
miserabili trascorse in quel fetore quando due leggeri passi
risonarono in fondo alla via. Mi voltai; era un’araba, seguita
da una sua piccola fante negra. L’holi di seta bianca stringeva
delle forme eleganti ma il fitto velo nero m’impediva di vederne
il volto. Mi avanzai verso di loro e l’araba, vista deserta la
strada, con un gesto pieno di grazia deliziosa, prese con la
punta delle dita la veletta nera e la rialzò sulla fronte,
offrendomi un viso ridente, creato per il divino Gennai, lassù
ove i fedeli godono le delizie del korkan tra fontane d’acqua di
rose, in palazzi di diamanti, ove scorre il fiume Kantser dalle
sponde d’oro, con la ghiaia di perle e rubini, le acque più
dolci del miele, le schiume più lucenti delle stelle.
È passò oltre; io mi rivolsi, e la
piccola fante mormorò una parola alla sua signora, che si voltò,
lanciando indietro tutta la veletta nera, con un sorriso
smarrito nell’ombra della volta. Alcuni arabi spuntarono a un
crocevia e si arrestarono di botto. Io passai davanti a loro,
fumando tranquillamente, e vidi la mia araba arrestarsi,
raccogliere una piega dell’holi e, poi entrare in un negozio di
stoffe, soffermarsi un istante ed uscirne. Avanti ancora, una
strada un volto oscuro, un altro, sbucai nel bazar degli
orefici. Nel seguirla, mi fiorivano alla memoria i versi di un
antico poeta arabo: “la vita è agli occhi miei un tesoro di cui
ogni notte rapisce una parte”.
La donna velata fece alcuni passi
ancora e percorse con un rapido volger del capo, le piccole
officine, dove gli argentieri battevano e bruciavano l’argento.
Finalmente, qualche cosa l’arrestò e di li a poco vidi tra le
sue mani una collana d’argento, tutta traforata a piccole
mezzelune. Guardò a lungo la collana, la fece scorrere tra le
dita e non parve contenta, la depose tra le mani dell’argentiere
e riprese il cammino indolentemente, lo volevo sapere ad ogni
costo dove abitava, quindi raddoppiai la prudenza; e per grazia
del Profeta, non fui deluso.
Di lì a poco, in una stradicciuola
mezzo tagliata dal sole, ove due piccoli arabi stritolavano dei
semi di palma, la donna si fermò e batté a una porta di vecchio
legno intagliato ad arabeschi, contornata da uno stipite di
mattonelle rosee, disegnate a foglioline di mirto. Una voce
dall’interno proferì un nome: “Lubna”!
L’araba risposte con la voce; era
quello il suo nome, i due piccoli scoiattoli, appena mi videro,
si fecero sospettosi e gridarono. Lubna scomparve.
Io gettai un pugno di parà nella
strada attigua e i due piccoli arabi si lanciarono a
raccoglierli; alzai gli occhi e vidi l’ombra di Lubna, dietro le
grate, l’ombra sorridente, senza velo. Udii un mormorio di
parole, di quelle rapide voluttuose parole arabe.
- O Allan el Fandi, benedetto
dall’Onnipotente, io dissi ripetendo i versi di Antar, questo
vino è più dolce che nettare, perché mi viene versato dalle mani
della bellezza –
Lubna, Fathma, Aisha, Mabruka;
Massuda, Hlima, Kammuna, nomi mormorati dietro il minuto
incorcio delle grate o sui tappeti di Damasco, o sotto le cupole
delle moschee, io invidio che vi ama laggiù, tra le vie di
Si-el-Hadar, di Diami-el-Droug, di Bab-el-Bahar
Quali prove per voi, o figlie
della stella del mattino, non vinse chi vi amava
Via tra le rupi e le sabbie,
cavalcavano per voi gli eroi del deserto, cantando: “Leoni,
seguiteci, perché vedrete sparsa la terra dei cadaveri”; né
scendevano dal cavallo o dal cammello infaticabile, prima d’aver
vinta ogni prova, né conquistavano voi, o sorelle della luce,
senza aver vegliato intere notti in agguato, senza aver
strappato ai leoni la ribelle criniera. Allora soltanto, sul
cavallo lanciato a corsa, come un macigno trascinato da un
torrente, riapparivano i poeti arabi, con la testa del nemico
infilata nella lancia, gridando:”Se io non temessi traccia
d’orgoglio, direi che il mio braccio basta per scrollare
l’universo”
Lontane voci, morte nel tempo,
eterne nell’amore, risonano all’orecchio di chi contempla un
istante i vostri occhi: molle e feroce, la poesia araba vi
circonda di bende di fiamma. Per un attimo, ritorniamo soli,
nude anime primitive e viviamo quella vita, desiderosi che la
vostra immagine non si estingua mai, desolati al vostro sparire,
come allo sparire del sole, quando si affonda tra le arene del
Sahara.
Laggiù, alle fauci del deserto,
sul bagliore della sabbia fulva, un punto nero, a poco a poco si
dilata; è un cammello, e un altro e un altro ancora. Vengono da
Garian o da Yefren, da Ghadames o da Murzuk, portando delle
figure velate, ondeggianti come sopra una cuna, ravvolte in un
nembo di sabbia e di sole, come idoli in un incenso,
trasfigurate nella nebbia aurea, in forme inafferrabili al di la
dei sensi e della vita; e a chi le guarda destano una nostalgia
amara di contrade lontane, di forme nuove, una irrequietezza
insaziabile e il tormento di dover morire, senza aver conosciuta
e amata tutta la bellezza barbara e inesauribile del mondo!
D.T.
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