I Sepolcri,
Il sole era quasi allo zenith, in quella tarda mattinata di primavera. Gli alunni , sudati e appiccicaticci, si erano riversati nella zona orientale del vasto cortile, in quella striscia d’ombra che rimpiccioliva a vista d’occhio.
Si erano presentati a scuola, quella mattina, tutti ben vestiti, seguendo a malincuore le indicazioni quasi isteriche del preside.
La scuola bramava, secondo gli schemi antiquati allora in voga ,di fare bella figura e ostentare una scolaresca modello al cospetto dello Ambasciatore d’ Italia, del Console e di una lunga sfilza di notabili.
Il Liceo era al completo, quella mattina. Non più di duecento allievi, fra tutte le classi e le sezioni, fra maschi e femmine, come dicevano allora nel linguaggio locale, fra italiani, cioè figli dei vecchi coloni,e ebrei, cioè gli ebrei locali che avevano abbracciato la cultura italiana, e maltesi, greci ed armeni. Ed un turco, Ismeth.
Liceo scientifico Dante Alighieri. Già il nome stesso della scuola avrebbe dovuto far intendere agli ospiti venuti così da lontano che si trattava di una situazione anomala, frutto di compromessi e patteggiamenti.
Paragonabile alla storia di una famiglia aristocratica decaduta, che viveva ancora nel fastoso castello ma ne occupava solo l’ala precentemente riservata alla servitù, poichè i nuovi plebei arricchiti si erano sistemati comodamente nell’ala superiore.
Un liceo scientifico dovrebbe comunque intitolarsi a Leonardo da Vinci o a Galileo Galilei. Fino a pochi anni prima, però, gli studenti erano oltre un migliaio, c’era lo Scientifico, il Classico, le Magistrali, ma ogni anno la popolazione si assottigliava e la fine era evidente. Presto tutto quel mondo sarebbe sparito, come le vicende della scuola facevano chiaramente intendere.
Ma quella mattina era una mattinata di festa e nessuna ombra avrebbe potuto oscurarla.
Daniel era stretto nel suo vestito di lino color tabacco, cravatta e fazzoletto nel taschino in tinta , color marrone, camicia celeste col
colletto inamidato, scarpe inglesi rossicce. A quindici anni, vestito come se si recasse ad un matrimonio, a scuola, martedì mattina, in quella primavera del 1961.
Il ricordo di quella mattinata, impresso nella sua memoria nei minimi particolari, lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, lo avrebbe influenzato oltre misura, avrebbe causato una svolta nel suo modo di pensare, nelle sue tendenze letterarie.
I ragazzi aspettavano l’ospite, un attore di cinema e teatro, giunto da Roma che avrebbe dovuto declamare alcuni brani, e l’aspettativa generale era di grande noia, alleviata comunque dal fatto che per quel giorno non si sarebbe più studiato.
Vittorio, già ventenne, un vero damerino, rampollo di una grande famiglia italiana locale, rientrato solo allora da anni di collegio in Italia e da una serie di insuccessi scolastici, era informatissimo sulla mondanità italiana, un mondo così lontano a loro,relegati in quella ex colonia, Vittorio, quindi, sussurrava a Daniel e a qualcun altro che no, ci si sarebbe divertiti, perchè questo attore e’ un attore comico e vedrete , ci farà ridere a crepapelle, e’ un comico, ve lo dico io...
Finalmente un bell’uomo alto, elegante , dallo sguardo penetrante sali’ sul palchetto, e dopo una battuta introduttiva, nel silenzio generale, con voce profonda intonò: “ All’ombra dei cipressi e nelle urne...”
Daniel, come quasi tutti, conosceva la poesia a memoria, ma non era mai riuscito ad apprezzarla.
Adesso era lì, pendeva dalle labbra di Vittorio Gassman.
Finalmente si rendeva conto di cosa avesse voluto trasmettere Foscolo, di quali sensazioni ed emozioni fosse in grado di risvegliare nel lettore. Assolutamente affascinato.
Quasi stregato da quella voce magica.
Dopo oltre trent'anni, una sera a Milano, di passaggio per quella città a lui così nota, avrebbe letto che il teatro Manzoni registrava il tutto completo per il Macbeth di Gassman.
Precipitarsi al teatro, comprare da un bagarino un biglietto in piccionaia, corrompere con un biglietto di grosso taglio la maschera, con quel suo tipico modo di fare, levantino e senza scrupoli, fu un tutt’uno. Tutto il palchetto d’onore a loro disposizione.
E raccontarle, in attesa dell’inizio della rappresentazione, di quella lontana mattinata, tentando di ricostruire l’atmosfera perduta, il colore del cielo, il grado della temperatura, gli sguardi annoiati dei ragazzini ed i volti tesi e preoccupati degli insegnanti, le faccìe ipocritamente compunte dell’Ambasciatore e del Console, i vestiti ridicolmente eleganti delle mogli dei notabili, cappellini variopinti, quasi fossero ad Ascot, al cospetto della Regina, erano lì, il corpo non più giovane fasciato in quegli addobbi fuori luogo, aspettavano tutto l’anno un paio di occasioni del genere per sfoggiare gioielli e collane, in quella striscia di Nordafrica in cui la vera mondanità non arrivava mai, ma bisognava, occorreva, necessitava far intendere che loro erano delle vere signore, che anche loro sapevano come comportarsi in circostanze d’occasione, che insomma erano il meglio della società, che gli ospiti, in quel buco relegato del mondo, potevano incontrare gente di livello, ricca, dai modi raffinati, che si sentissero quindi benvenuti, ed a loro agio, fra la crema della società cui erano usi frequentare.
E la voce di Gassman, quel timbro eccezionale.
E di come avesse trovato, lui, Daniel, un microsolco a 45 giri, con la sua declamazione dei Sepolcri, e di come quel disco, oramai gracchiante e rovinato lo avesse accompagnato per anni, per poi andare perso ,o forse rotto, chissà...
E di come l’indomani sera fosse andato nel grande anfiteatro di Sabratha,
quasi intatto in quella città romana, ad assistere alla rappresentazione dell’Amleto.
Poiché chissà perchè , chissà chi aveva deciso che l’Amleto fosse la cosa più indicata per quel pubblico non uso al teatro, arrivava si o no una compagnia teatrale all’anno, per poche sere, perchè l’Amleto, ma non si poteva scegliere qualcosa di più facile, più semplice, più orecchiabile e comprensibile, ma Gassman era un attore così versatile, poliedrico, avrebbe potuto interpretrare qualunque piece, anche commedie come diceva Vittorio.
Ma no, Amleto e basta.
Andare a Sabratha per la rappresentazione teatrale, o per il concerto, a casa di Daniel, era una impresa.
Già dalle tre di pomeriggio si facevano i preparativi.
Il cestino con i panini, le bibite, ( bar e ristoranti non esistevano su quel percorso ), il caffé nel thermos per Papà che doveva guidare di notte, per affrontare quel lungo viaggio fuori città, un paio di copertine di lana poiché all’aperto farà fresco, di sera, una pila tascabile poiché non si sa mai, in quelle rovine al buio....La famiglia al completo intraprendeva quindi quella spedizione, un viaggio di circa ottanta chilometri, per tornare stanchi e ciondolanti, verso le due del mattino. Una vera impresa, per quei tempi.
E le sensazioni risvegliate dieci anni più tardi, vedendo quelle fotografie di Sabratha e Leptis Magna, di come tutto questo mondo, il mondo della sua infanzia, il mondo dell’adolescenza, il mondo della sua formazione, ritornasse vivo ed immediato, dopo quarant'anni di esilio, di esilio a vita.
Una fotografia, una sola foto dell’androne delle scale della sua casa, e i ricordi ritornano, vivi e presenti, quasi risvegliati da un sonno ipnotico, i colori, gli odori, i suoni, la musica monotona e incessante, il fetore delle stradine , il sapore salato dell’acqua di mare, la lana calda e ruvida dei barracani bianchi delle vedove per le strade con solo un occhio scoperto,
l’astio nello sguardo dei passanti, il senso di superiorità e di disprezzo per la gente retrograda che non sapeva ancora leggere, il timore di circolare per quelle strade, la paura di essere assalito e violentato che non ti aveva mai lasciato un minuto solo, in tutta l’adolescenza, la bramosia per un mondo libero con libertà di parola e di stampa, la mancanza di verde e di prati, il senso di soffocamento di questa piccola vita di provincia, in cui tutti ti conoscevano, ogni tuo passo o spostamento noto a tutti, la libertà, la voglia di libertà, di appartenere ad un mondo libero, la voglia di fuggire , di evadere di scappare ... Tutto in un baleno, e dopo l’amarezza temporanea, istantanea, non per tutto ciò che hai rivisto in quest’attimo ma per la gioventù per sempre svanita, la gioia e la soddisfazione di non essere più lì, di essere veramente riuscito ad evadere, di essere riuscito a costruire la vita altrove, nella libertà appunto.
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